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La storia dell’acquariofilia dalla fine degli anni ’60 ai giorni nostri, raccontata da un acquariofilo di lungo corso che le ha viste un po’ tutte.


Indice dei contenuti

Dalla fine degli anni Sessanta alla prima metà degli anni Settanta

Era il 1969, tutto il mondo stava con il naso all’insù per guardare Neil Armstrong passeggiare sulla Luna. Ed io, giovane studentino delle medie inferiori, ricevevo uno splendido regalo dal mio zio «amazzonico».

Foresta amazzonica
Foresta amazzonica (fonte: Wikipedia)

Non che io abbia una qualche parentela sudamericana, ma era stato mio zio che, per cercare lavoro e scappare da una fidanzata troppo esigente, all’inizio degli anni Sessanta era emigrato in Brasile.

Durante quella permanenza in terra straniera, tra le altre cose, era finito a cercar l’oro nella foresta amazzonica.

E chissà perché, tornato in Italia decise di regalare a quel suo nipote, che a stento aveva visto poco più che neonato, un pezzetto di quell’avventura amazzonica che tanto gli era rimasta nel cuore: un acquario, una micro porzione di mondo acquatico.

Piccolo mondo acquatico

Potete immaginare la mia gioia di fronte a quel meraviglioso regalo, in un’epoca dove esistevano soltanto il primo e il secondo canale della RAI, ovviamente in bianco e nero.

Com’era fatto un acquario di fine anni Sessanta?

Nella mia memoria non v’è traccia di quali pesci fosse popolato, né tanto meno di quali piante, ma ricordo che i vetri erano tenuti assieme da un’intelaiatura metallica, presumo alluminio. Un acquarietto da 30 litri che misurava circa 50 cm di lunghezza per 20 cm di larghezza e 30 cm di altezza. Aveva un coperchio con plafoniera, un riscaldatore e un filtro sotto sabbia, azionato da un rumoroso aeratore.

Uno dei primi aereatori usati nella storia dell'acquariofilia: l'aereatore Rena
Uno dei primi aereatori usati nella storia dell’acquariofilia (pubblicità tratta dalla rivista «Acquario»)

Purtroppo, com’è facile immaginare, i poveri pesciolini morirono in men che non si dica e quel piccolo sogno finì a prendere polvere in cantina.

Passò qualche anno, non molti, che noi studenti delle medie superiori venivamo travolti dall’onda lunga del Maggio francese, affascinati dalle letture di «Cent’anni di solitudine» e, per gli amanti della natura come me, «L’anello di re Salomone». Fu così che, sognandomi allievo di Lorenz, recuperai il piccolo acquario di mio zio.

L’assassino

Torino, come penso anche le altre città, negli anni Settanta era piena di piccoli negozi d’acquariofilia ed io, ancora molto sprovveduto, mi recai in un esercizio sito nella centrale piazza Statuto, proprio davanti all’omonima e tragica sala cinematografica dove, anni dopo, per un incendio moriranno oltre sessanta persone.

Essendo più grandicello, questa volta gli abitanti della mia vaschetta resistettero per più tempo, ma furono comunque involontari interpreti di uno strano ed inquietante fenomeno: ogni giorno ne spariva uno. Dovetti arrivare agli ultimi tre o quattro esemplari per capire che cosa stesse succedendo, o meglio, chi fosse l’assassino.

Quello che inizialmente mi sembrò un insignificante pescetto nerastro, piccolo come gli altri, in breve tempo si era trasformato in un vorace gigante che arricchiva la sua dieta divorando senza esitazione gli sfortunati coinquilini.

«Aquarium» e altre pubblicazioni di acquariofilia dell'Editore Primaris
«Aquarium» e altre pubblicazioni di acquariofilia dell’Editore Primaris

Fu allora che mi resi conto di non aver mai saputo esattamente quali pesci ospitavo, figuriamoci conoscere le loro esigenze. Capii che occorreva documentarsi. Ma come?

Internet emetteva i primi vagiti, pensate che è del 1973 la prima connessione fra l’Europa (Gran Bretagna e Norvegia) e le università americane.
Anche la carta stampata era piuttosto scarsa in materia: c’era sì qualche libro, ma esisteva una sola rivista, la mitica «Aquarium».

Chiedere al negoziante che mi aveva rifilato i pesci? Per carità, anche se giovane e ingenuo avevo capito che quel rivenditore era meglio lasciarlo perdere.

Comunque sia, alla fine riuscii ad identificare il mio spietato killer, rimasto nel frattempo l’unico abitante della vasca: un Astronotus ocellatus.

Espansione

Era chiaro che non potevo continuare a tenerlo in un acquarietto da 30 litri. Quindi, dando fondo alle mie esigue riserve monetarie, acquistai una “enorme” vasca tutta in vetro da 60 litri (60 x 30 x 35 cm di h).

Evidentemente non mi ero documentato a sufficienza, così presi un compagno per Oscarino: un altro Astronotus. Occhio, non si accettano commenti sulla mia grande avventatezza!
Ovviamente anche il 60 litri si rivelò, dopo breve tempo, assolutamente inadeguato per quei due pesi massimi.

Astronotus ocellatus
Astronotus ocellatus (fonte: Wikipedia)

La fortuna volle che un conoscente mi suggerisse un negozio (un po’ scalcinato, a dir la verità) in via Ormea, nella quale straordinariamente, per lo meno per Torino, le meretrici esercitavano in pieno giorno.

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Ma ritorniamo al nostro negozio, ove si poteva reperire indifferentemente da un Cockerino a uno P. Scalare. Spendendo veramente poco riuscii a procurarmi un acquario usato da ben 100 litri, un vero e proprio mare.

L’allestimento di quest’ultima vasca fu un po’ meno casuale, qualcosa cominciavo ad imparare: un po’ parlando con i negozianti, dai quali qualche consiglio utile si riusciva a racimolare, e molto dalla lettura di Aquarium, la rivista della quale aspettavo ansioso l’uscita mensile, per poi divorarla avidamente in un battibaleno.

La seconda metà degli anni Settanta

Fu proprio dalle pagine della preziosa rivista che venni a conoscenza della feroce disputa che all’epoca divideva i fautori del filtro meccanico esterno dai tifosi del filtro biologico interno. Era uno scontro senza esclusione di colpi.

Per i sostenitori del filtro esterno, i filtri biologici altro non erano che cloache a cielo aperto; di contro, gli avversari erano convinti che dietro i filtri esterni ci fosse l’ombra lunga della Eheim, ipotesi secondo loro avvalorata dal fatto che la stessa Aquarium fosse chiaramente schierata dalla parte dei «meccanici».
Certo è che la rivista, non facendo mistero di avere grandi simpatie per l’altro colosso dell’industria acquariofilia (la Tetra), qualche sospetto lo sollevava.

I filtri Fluval, molto diffusi in acquariofilia negli anni 70
I filtri Fluval, molto diffusi negli anni 70 (pubblicità tratta dalla rivista «Acquario»)

Personalmente, ero un simpatizzante del filtro biologico, ma le mie scarse finanze continuavano a relegarmi all’uso del ben più economico filtro sotto sabbia che, devo dire, non funzionava poi tanto male.

Rimanendo sempre in tema industriale, incominciavano ad affermarsi anche aziende italiane come la Sicce (1973) e la Askoll (1978).

Andriolo

Eravamo ormai giunti nella seconda metà degli anni Settanta, avevo tagliato il traguardo della maggiore età e con i miei amici avevamo affittato una stanza dove ci trovavamo ad ascoltare «Ancora tu» di Battisti e «Margherita» di Cocciante.

Qui avevo anche trovato lo spazio per allestire il mio 60 litri, ormai libero dagli Astronotus.
Devo ammettere che non realizzai un capolavoro, anzi… era un vero e proprio fritto misto mal condito.
Così la punizione, ho il dubbio divina, si abbatté inesorabile su di me, o meglio sul vetro del mio povero acquario, sotto forma di un tronco d’albero di 40 chili incautamente appoggiato da un amico distratto sulla parete di fronte.

Copertina del libro «Acquariointerni» di Klaus Paysan, una delle riviste di acquariofilia più famose
Copertina del libro «Acquariointerni» di Klaus Paysan

La fortuna volle che stessi entrando nella stanzetta proprio nel momento in cui si compiva l’infausto evento, e che il vetro frontale, pur frantumato, restasse parzialmente integro nella parte bassa, conservando così una decina di centimetri d’acqua che mi permise di trasferire in fretta e furia i pescetti superstiti in un secchio.
Vi assicuro che sessanta litri d’acqua che si riversano sul pavimento sono uno spettacolo agghiacciante.

Non saprei dire se fu una diretta conseguenza dell’incidente del tronco, ma proprio in quel periodo presi finalmente contatto con quello che sarebbe stato il negoziante d’acquari della mia vita. Lo cito per nome: Andriolo, glielo devo.
Era già vecchio quando io ero un ragazzo; ormai è morto da alcuni anni, pace all’anima sua.

Ogni volta che andavo nel suo negozio rimanevo sempre un paio d’ore a parlare di pesci, e non solo: politica, economia e la stupidità della vita erano argomenti che non mancavano mai nei nostri discorsi.
Sicuramente ha rappresentato un salto di qualità nelle mie conoscenze d’acquariofilo.

Un sogno temerario

Credo, anche se qui il ricordo si confonde, che fu proprio Andriolo a parlarmi di un’altra rivista: «Acquari e natura». Se non sbaglio era addirittura precedente ad Aquarium, ma fu poi fagocitata da quest’ultima.

Per mano del mio amico negoziante riuscii anche a realizzare un sogno temerario: la costruzione di una vasca da 300 litri (150 x 50 x 50 cm di h, dei quali 40 cm utili per il riempimento).
Utilizzò cristalli da 1 cm di spessore e come sistema di tiranti, oltre i due per sorreggere i neon, posò sul fondo delle listelle di vetro che percorrevano internamente tutto il perimetro della vasca.

Per il filtro, avendo speso ogni mia Lira, dovetti accontentarmi ancora una volta di un sotto sabbia: un modello componibile della Tetra che ricopriva tre quarti della superficie, collegato ad uno di quei “moderni” aeratori che, finalmente, cominciavano ad essere meno rumorosi.

L’impianto luci era composto da due neon della Gro-Lux: 40 watt l’uno, lunghi 120 centimetri, emettevano una luce un po’ troppo calda.

Impianto d'illuminazione per acquariofilia Tronilux
Impianto d’illuminazione Tronilux (pubblicità tratta dalla rivista «Acquario»)

La popolazione era composta dai miei due vecchi Astronotus e da altri due esemplari che riuscii a trovare delle stesse dimensioni, intorno ai 15 centimetri.
Ovviamente nella vasca c’erano ben poche chance per la sopravvivenza delle piante, cresceva solo qualche sparuta Vallisneria.

Nonostante la cattiva fama, fra i quattro Oscar i rapporti erano abbastanza amichevoli, e lo spettacolo di loro quattro assieme era impagabile.
Così, alla fine degli anni Settanta, ascoltando «The Wall» dei Pink Floyd nel nuovissimo walkman della Sony, grazie agli Astronotus sperimentai una delle più belle esperienze della mia vita di acquariofilo.

L’idea geniale

Nonostante la fascinazione che quella vasca esercitava su di me, mi resi ben presto conto che anche un 300 litri, per simili bestioni, era inadeguato.
Per la cronaca, anche con un tale carico organico il filtro sotto sabbia riusciva a fare il suo mestiere, pur con fatica e aiutato da frequenti cambi d’acqua.

Dovevo trovare una sistemazione ai miei pescioni, e di certo non volevo riportarli in un negozio: in che mani sarebbero finiti?
Fu allora che una cara amica ebbe un’idea geniale: contattare lo zoo di Torino, che al suo interno ospitava un settore dedicato al mondo sommerso. Oltre a svariate vasche da migliaia di litri, vi erano anche delle magnifiche ricostruzioni di biòtopi, con tanto di parte emersa.

Diorama amazzonico
Particolare di diorama amazzonico (fonte: Wikipedia)

La mia amica (io non ne avevo il coraggio) telefonò al vice direttore dello zoo, che accettò senza problemi di riceverci con tanto di «carico organico».
Così, per la prima volta, invece di guardare le vasche dal vetro frontale potei osservarle dagli spazi riservati agli addetti ai lavori, nel retro di quei meravigliosi acquari.
Ai miei Astronotus toccò una sistemazione veramente principesca: il diorama amazzonico.

Scienze

In quello stesso periodo, avrò avuto vent’anni, lavoravo come «doposcuolista» in un istituto privato, ove mi fu affidata una quinta elementare. All’inizio mi occupavo solo di far fare i compiti e sorvegliare i bambini che giocavano nel cortile; poi la mia collega del mattino, la maestra titolare, mi dette la possibilità d’insegnare una materia: scienze.

Era la materia giusta per me e, neanche a farlo apposta, trovai non so più dove un acquarietto tutto in vetro, da una trentina di litri, che volli tenere in classe.
Stavo già per popolarlo di pesci quando un amico, conoscendo le mie inclinazioni animaliste, mi portò un Orbettino che aveva catturato durante una gita in campagna.

Anguis Fragilis, detto anche Orbettino
Anguis Fragilis, detto anche Orbettino (fonte: Wikimedia Commons)

Commutai così in tutta fretta la vasca in un mini terrario, che riuscì ad esercitare un notevole fascino sui miei ragazzetti.

Mi piace pensare che quell’iniziativa abbia fatto amare un po’ di più la natura ai miei piccoli allievi, e che magari qualcuno di loro da grande sia diventato un bravo acquariofilo, se non addirittura un moderatore del forum di Acquariofilia Facile

Scotch

Prima di chiudere il racconto su questo decennio, vorrei parlarvi di un piccolo inconveniente tecnico che angustiava noi acquariofili dell’epoca.

Oggi, quando acquistiamo dei pesci, il negoziante li mette in quelle bellissime buste di plastica trasparente, generalmente della Tetra, che hanno gli angoli della base arrotondati per evitare che qualche pesciolino possa rimanere schiacciato.
Bene, nel periodo di cui vado narrando, i produttori di sacchetti per il trasporto dei pesci non avevano queste accortezze.

Cosa facevano allora i negozianti più scrupolosi? Arrotondavano l’angolo retto con dei pezzetti di scotch.
«Ottima idea» direte voi. Peccato che, quando andavi a immergere la busta nella vasca per la fase di acclimatamento, ti dimenticavi sempre di questa pratica e dopo un po’ trovavi lo scotch a vagolare per l’acquario…

I primi anni Ottanta

Inesorabilmente conquistato dal glorioso Blade Runner, che nel giro di un mese andai a vedere per ben tre volte, ero ormai un acquariofilo esperto, o almeno così mi piace pensare, tant’è che mi sposai e… «Sposato? Che c’entra?» vi chiederete. Niente, ma vabbè, tanto per rimarcare che ero anche diventato una persona assennata.

Tanto assennata che con un amico decidemmo di metterci in affari, concretizzando una semplice quanto geniale idea: vendere ai negozianti i pesci che riproducevamo.
Fu così che acquistammo alcuni contenitori di plastica ad uso alimentare da ben 150 litri l’uno e ci buttammo dentro un po’ di pesci.

Copertina del libro «Ciclidi africani» di Horst Linke e Wolfgang Staeck
Copertina del libro «Ciclidi africani» di Horst Linke e Wolfgang Staeck

Non sarà difficile intuire come finì, ma un episodio vale la pena di essere raccontato.
Avevamo preso una specie di Ciclidi che non riuscivamo a classificare e, non sapendone nulla, non riuscimmo a riprodurli. Che farne? Semplice: decidemmo di venderli a qualche negoziante.

Ricordo che rimasi almeno due ore a parlare amabilmente con il proprietario del negozio in cui mi recai. Peccato che, quando ne uscii, non avevo né i pesci né i soldi.
Fui folgorato come San Paolo sulla via di Damasco e, disarcionato dalla mia stupidità, capii che non ero tagliato per il commercio. Come se non bastasse, il mio amico era peggio di me.

Smantellammo così il nostro impianto di riproduzione, spinti anche dallo sbalordimento per l’entità delle bollette della luce che avevamo dovuto pagare.
Pertanto mi imposi moderazione, “limitandomi” al possesso di due sole vasche.

Moderazione

La prima era il 300 litri artigianale, che finalmente dotai di un filtro biologico interno.
Non mi attenni alla lettera alle indicazioni dei puristi, poiché richiedevano un volume filtrante sino al 20% del litraggio complessivo della vasca, corrispondente nel mio caso a ben 60 litri.

Acquario Euraquarium Atollo 1200
Acquario Euraquarium Atollo 1200 (pubblicità tratta dalla rivista «Acquario»)

È pur vero che all’interno di questi filtri, oltre ai materiali filtranti e alla pompa, si può ospitare anche il riscaldatore (e per i marini lo schiumatoio) nascondendo alla vista le attrezzature tecniche.
Essendo però, nella mia filosofia d’acquariofilo, lo spazio a disposizione dei pesci la cosa più importante, il filtro interno che allestii a mala pena arrivava a 30 litri (ovvero il 10% del volume totale dell’acquario).

La seconda vasca era un usato di quasi 200 litri, la stessa che tuttora utilizzo per i miei Carassi.
Posso dire per esperienza che gli acquari assemblati con il silicone, al tempo trasparente, possono reggere almeno quarant’anni, e chissà quanto ancora.

Allevai diversi tipi di pesci, ma la mia passione restavano i Ciclidi, come i Cichlasoma nigrofasciatum (oggi Amatitlania) e i Pelvicachromis pulcher. I primi riuscii a riprodurli, i secondi no.

Per un po’ mi cimentai anche con le tartarughine palustri, le Trachemys scripta elegans, e favorire un idoneo sviluppo del carapace comprai quella che, all’epoca, era la principessa delle lampade per acquario: la costosissima «True light».
Anche in questo caso fu l’esperienza diretta ad insegnarmi che, per quanto simpatiche, le tartarughe palustri non erano e non sono adatte ad un acquario domestico.
Così anche loro andarono ad arricchire la fauna acquatica dello zoo di Torino.

L’ignobile gesto

Novità importante per me, in quell’inizio degli anni Ottanta, fu la scoperta in edicola di una nuova rivista d’acquariofilia: «Acquario».

Copertina della rivista «Acquario» degli anni '80, una delle più lette in acquariofilia
Copertina della rivista «Acquario» degli anni ’80

È vero, il primo numero uscì nel 1979, ma rovistando fra le mie vecchie scartoffie non ho rinvenuto copie precedenti al 1981, probabilmente devo essermi perso le prime uscite.

A differenza di Aquarium, la nuova rivista aveva una veste grafica meno curata e una linea editoriale, azzarderei, più indipendente dalle grandi Aziende del settore; suppongo fosse per tale ragione che si schierò con i sostenitori del filtro biologico.

Acquario era diventata la mia pubblicazione acquariofila d’elezione.

Nonostante questa mia dichiarazione d’amore, nel 1983 la tradii per la più ricca concorrente. Le righe che seguono sono la storia del mio ignobile gesto.

In quel periodo, oltre che per i Ciclidi, avevo un mezzo interesse anche per i Betta. Fra l’altro, mi sembra di ricordare che non ne venissero commercializzate tante varietà come al giorno d’oggi.
In ogni caso, mi ero convinto che sarebbe stato possibile allevare due coppie assieme, a patto di inserirle in una vasca di dimensioni adeguate.

Dato l’habitat di acque ferme, avevo anche immaginato di poterli allevare senza l’ausilio di un filtro, scopiazzando gli insegnamenti di Konrad Lorenz.
Vi assicuro che per l’epoca era una vera e propria bestemmia.

Locandina del Salone internazionale «Zoomark» di Firenze, anno 1985
Locandina del Salone internazionale «Zoomark» di Firenze, anno 1985

Non avendo a disposizione una vasca delle giuste dimensioni, decisi di costruirne una.
Le mie finanze, come già altre volte, non brillavano per disinvoltura; dopo attenta riflessione, decisi quindi che potevo allestire un acquario abbastanza grande pur utilizzando vetri economici. Il mio ragionamento partiva dal presupposto che è consigliato allevare i Betta con una bassa colonna d’acqua; questa avrebbe esercitato una pressione ridotta sulla struttura dell’acquario, permettendomi di utilizzare vetri più sottili.

Così, dopo aver disegnato la vasca, andai da un vetraio e mi feci tagliare cinque vetracci per finestre, senza neanche farli molare. Assemblai il tutto con un buon silicone trasparente, realizzando così uno strano acquarietto da 1 metro di lunghezza, 30 cm di larghezza e 25 di altezza, che avrei riempito fino a 20 cm.

Attesi tre giorni per far asciugare bene il silicone, poi iniziai l’allestimento: un’abbondante vegetazione, illuminata da un neon Gro-Lux da 30 watt, lungo 90 cm.
Infine, dopo aver aggiunto un termoriscaldatore, popolai il nuovo acquario con due maschi e due femmine di Betta splendens.

Strumenti per la termoregolazione in acquario degli anni '80, l'acquariofilia ha fatto passi in avanti da allora
Strumenti per la termoregolazione in acquario degli anni ’80 (pubblicità tratta dalla rivista «Acquario»)

Come «senza filtro» funzionò bene, un po’ meno per quel che riguarda la convivenza fra i Betta. Ma non pensate ad uno scannamento fra maschi. Quel che successe mi lasciò attonito: il mistero più grande non fu tanto la scomparsa nel nulla di ben tre dei quattro esemplari, quanto il vedere l’unico sopravvissuto, o meglio sopravvissuta, con le sue piccole pinne ma di una stazza impressionante, girare tracotante per la vasca, quasi a dire «datemi qualche altro maschietto, che lo sgranocchio io!».

Nonostante il fallimento della mia sperimentazione, trovai l’esperienza molto interessante, tanto da scriverne un articolo che proposi non all’amata Acquario, bensì alla più blasonata Aquarium, sancendo così il mio vile tradimento.

La rivista pubblicò il mio lavoro con il titolo di «Battaglie, misteri e mutazioni» nel numero di giugno del 1983, dietro compenso di un porta riviste. Neanche Giuda si era venduto per così poco!

I secondi anni Ottanta

Mentre leggevo il nuovo fumetto horror della Bonelli, «Dylan Dog», e tremavo per i mostri ben più reali del disastro di Chernobyl, a causa di vari traslochi riducevo la mia dotazione di acquari al solo vascone da 300 litri.

In quel periodo accarezzai lungamente l’idea di allevare i Discus, gli indiscussi principi degli acquari di acqua dolce, il sogno di ogni appassionato, ma non mi decisi in tempo: mi prese il drizzone per il marino.

Copertina della rivista «Acquario» dedicata al marino, una delle riviste più lette dedicate all'acquariofilia
Copertina della rivista «Acquario» dedicata al marino

Quando ne parlai ad Andriolo, il mio negoziante di fiducia, gli si illuminarono gli occhi e mi raccontò, quasi con fare da cospiratore, di una novità per il filtraggio degli acquari marini, arrivata non si sa bene da dove: la «sabbia viva».

Per quanta stima avessi del mio amico negoziante, non ne rimasi convinto e abbozzai. Si trattava di un sistema sul tipo di quello che oggi chiamiamo Deep Sand Bed (DSB). Dico tipo, perché a differenza del DSB la «sabbia viva» abbisognava anche di un filtro sotto sabbia.

Optai per il più classico e collaudato filtro biologico interno, senza neanche ricorrere allo schiumatoio, e allestii un marino tropicale nel quale feci convivere i famosi pesci Pagliaccio (Amphiprion ocellaris) con il loro Anemone ospite, oltre a qualche altro pesce e invertebrato che non ricordo bene.

Mediterraneo

Alla fine, anche il marino tropicale mi andò stretto; fu così che finalmente approdai al più stimolante degli acquari salati: il «Mediterraneo».

Iniziai a trascorrere i miei weekend nelle località marittime della Liguria, gironzolando sugli scogli sia sotto il cocente sole estivo che con le più miti temperature autunno/primaverili, armato di retini, sacchetti e secchio per raccogliere paguri, alghe, gamberetti (Palaemon), magari qualche bavosetta rimasta intrappolata in una pozza con la bassa marea, e rocce brulicanti di microrganismi. Nei luoghi dove l’acqua era più pulita riuscivo anche a trovare gli splendidi Pomodori di mare (Actinia equina).
Avevo inoltre scoperto che il molo di una delle località più «in» d’Italia, Portofino, era pieno di Anemoni e pescetti di varie specie.

Pubblicità dei mangimi PWD per pesci d'acquario
Mangimi PWD per pesci d’acquario (pubblicità tratta dalla rivista «Acquario»)

Era troppo bello: dopo aver mangiato un pezzo della superba focaccia ligure, incurante dei “raffinati” turisti che popolavano la signorile località, andavo a sdraiarmi sul bordo del molo munito del mio immancabile secchio, cercando di raccogliere qualche interessante esemplare marino.

Mi ero improvvisato anche apneista in un metro d’acqua,  per andare a caccia di Bavose e Ghiozzi. Devo dire che fu il momento più divertente della mia carriera d’acquariofilo.

La vita a volte è un po’ strana: cade il «Muro di Berlino» e siamo tutti convinti che più niente fermerà il futuro; ed io gongolavo con il mio «Mediterraneo» mentre mi  apprestavo a vivere un altro esaltante capitolo del mio hobby, senza sapere che sarebbe stato l’ultimo di quegli anni.

Kraken

Mi trovavo al molo di Riva Trigoso, a due passi dalla più nota Sestri Levante, impegnato nelle mie solite ricerche acquatiche, quando vidi emergere all’improvviso un sommozzatore con un sacco a rete pieno di piccoli polpi.
Notai che alcuni di quegli esserini tentacolati erano ancora vivi e così, preso da un’incontrollabile smania di possesso, convinsi la mia consorte a chiedergliene uno in regalo.
Sì, delegai a lei l’incombenza perché a me il coraggio… non ha mai fatto difetto.

Il povero sub, pur controvoglia, non ebbe l’ardire di rifiutarsi; con la felicità alle stelle, mi ritrovai a portare a casa una leggenda, un piccolo «Kraken».

Certo, ero consapevole che stavo per introdurre un super predatore nella mia vasca già popolata da pesci, paguri, gamberetti, qualche bivalve e una stella marina.
Però pensavo: «è piccolino, con un’apertura tentacolare di una quindicina di centimetri, pure ferito com’è, cosa potrà mai fare?»

Octopus macropus
Octopus macropus (foto di HCanon)

Ecco cosa: avevo fornito al mio nuovo ospite mangime fresco per un paio di giorni. Nel giro di pochissimo tempo aveva divorato tutti i coinquilini, risparmiando solo la stella di mare che, nonostante i suoi molti tentativi, si era rivelata troppo coriacea e pungente.

Scoprii poi che il tentacolato amico non era il comune Octopus vulgaris, ma un Octopus macropus, comunemente chiamato Polpessa poiché erroneamente ritenuto la femmina del classico Polpo.

Una discutibile abitudine

Tenni il Cephalopode per un intero anno. All’inizio si era scavato una tana che richiudeva con un sasso; poi, quando capì che non c’erano pericoli, l’abbandonò.
A volte, se colto di sorpresa da qualche evento esterno alla vasca, spruzzava anche la famosa nube d’inchiostro, ma niente di particolarmente oscurante.
Ovviamente non esisteva più un arredamento: ogni singolo sasso, anche i più grossi, era stato spostato e rispostato più volte dal nuovo padrone dell’acquario.

Lo stron… ehm… l’animaletto, inoltre, aveva preso una discutibile abitudine, favorita dalle necessità tecniche di gestione della vasca: essendo un abitante delle nostre acque dovevo evitare che la temperatura salisse, quindi tenevo i coperchi della vasca parzialmente aperti; ma poiché conoscevo la propensione del nostro amico a farsi delle belle passeggiate fuori dall’acquario, vi avevo collocato una griglia per evitare evasioni.
E allora lui che faceva? Si attaccava alla griglia con i tentacoli e incomincia a spruzzare acqua un po’ dappertutto. «E vabbè, che sarà mai?» direte voi.
Niente di che, in effetti, se non che l’acqua marina ha un pessimo rapporto con l’impianto elettrico, così anche di notte, quando il timer spegneva le luci, le lampade della vasca mantenevano una leggera e inquietante fluorescenza. Una vera e propria sedia elettrica.

In origine, per effettuare piccole manutenzioni all’interno della vasca, avevo preso delle lunghe pinze di legno che ormai non servivano più, visto che non c’era più niente da sistemare.
Erano però diventate un bel trastullo per l’amico Polpo. Le introducevo in acqua e lui subito ci si avventava, cercando di strapparmele via. Confesso, non ho mai avuto il coraggio di fare lo stesso giochetto con la mano.

Polpo avvinghiato alle pinze
Polpo avvinghiato alle pinze (foto di HCanon)

L’estate successiva il Polpo aveva raggiunto la considerevole apertura tentacolare di un metro, e quando si attaccava al vetro frontale ne copriva quasi interamente la superficie.

Era diventato troppo grande per la mia vasca, così, pur a malincuore, dovetti restituirlo al mare. Mi restò l’angoscia che, ormai abituato alla presenza dell’uomo, potesse nuovamente cadere facile preda di un qualche pescatore subacqueo.

Gli anni Novanta

Con la guerra del Golfo Persico i Novanta iniziarono davvero male.
Poco dopo però Tim Berners-Lee diede vita al Web (da non confondersi con Internet, di cui è un servizio) e la conoscenza sembrò non avere più confini.
Io nel frattempo, almeno da un punto di vista acquariofilo, caddi in un sonno letargico.
Si può dire che non ho ricordi di quegli anni.
Abbandonai il marino, che richiedeva troppo impegno, ma cosa tenessi nella vasca mi è oscuro.

Ricordo solo che, quando tornai a Torino (sì perché ero stato via dalla mia città natale per circa tre anni), volli andare a visitare i negozi d’acquari che mi avevano accompagnato lungo il percorso del mio hobby.

Forse avrei dovuto lasciar perdere, rendermi conto gradualmente di cosa era successo, di quanto quel mio microcosmo, nato da un sogno amazzonico, si fosse dissolto all’ombra di uno strano progresso che sembrava divorare le speranze di un mondo migliore.

Torino, via Cibrario
Torino, via Cibrario (fonte: Wikipedia)

Non ricordo esattamente l’anno, ma Andriolo, il mio negoziante amico, morì.

I vecchi “criminali” di via Luigi Cibrario, sì proprio quelli che mi avevano rifilato il primo Astronotus, avevano chiuso.
Il «salotto di Torino», così veniva chiamato il negozio di acquari di via Sacchi, non c’era più.
E quel serraglio improbabile di piazza Vittorio, ove si poteva trovare di tutto, anche lui chiudeva. Via Ormea? Sparito.

Resistette ancora un po’ Acquario Moderno di corso Regina, ovviamente adesso è chiuso anche lui. In via Botero, il commerciante al quale avevo cercato di vendere infruttuosamente i miei pescetti: perso.

Dolorosamente, anche lo zoo con le sue magnifiche vasche aveva chiuso i battenti, lasciando solo tracce di grigio cemento.

Strano, era come veder scorrere le immagini della pellicola di Valerio Zurlini, «Il deserto dei Tartari». Così, sempre avviluppato in uno strano torpore, giungevo alla fine del millennio.

Quindici anni del 2000

Probabilmente fu a causa di una serie di dissesti personali, e anche il fatto che i miei figlioli stavano praticando l’altra mia grande passione (il ciclismo), precipitai nella demenza acquariofila.
Ero paranoico, temevo che il mio vascone da 300 litri, ormai vecchiotto, esplodesse inondandomi la testa di incubi.

E qui compii la prima stupidaggine: lo svuotai, lo ripulii ben bene e lo dedicai all’allevamento dei criceti. Già…
Vi prego, amici acquariofili, perdonatemi!

Abbandonai l'acquariofilia e mi dedicai ai criceti...
Abbandonai l’acquariofilia e mi dedicai ai criceti…

Ma non bastava, il livello della mia perdizione non si voleva fermare e, complice un ennesimo trasferimento, buttai via il mio acquario, l’acquario che mi aveva costruito l’amico Andriolo, l’acquario che mi aveva accompagnato per anni e anni.

…fatti non foste a viver come bruti…
Ed io, proprio abbrutito mi ero.

Dovetti aspettare ben tre lustri per risvegliarmi da quel sonno letargico e delirante.

2016, l’anno del ritorno

Ancora un cambio di casa, ma questa volta per tornare nel quartiere della mia gioventù. Forse fu proprio questo ritorno alle strade che mi avevano visto crescere che generò in me la voglia di dedicarmi nuovamente allo splendido gioco dell’acquariofilia.

Dovete sapere che alla mia compagna piace girare per i mercatini delle pulci, passatempo al quale avevo sempre cercato di sottrarmi. Così fu grande lo stupore della mia «dolce metà» quando mi offrii di accompagnarla, senza le solite resistenze, da uno di questi rigattieri.

Rivista mensile di acquariofilia «Il mio Acquario»
Numeri della rivista «Il mio Acquario» (foto di Pisu)

In realtà volevo indagare, senza dare troppo nell’occhio, sull’eventuale presenza di acquari usati e di quale potesse essere il loro prezzo. Non trovai niente di convincente, solo piccole vaschette mal tenute.

La gioia costa fatica

Iniziavo già a demordere, ma il destino aveva sancito il ritorno al mio antico interesse: fu il mio vecchio amico, quello con il quale in gioventù avevamo cercato di vendere i pesci da noi riprodotti, a ricordarmi che conservava la vecchia vasca da 200 litri, proprio quella dei primi anni Ottanta. Me ne ero completamente dimenticato.
Un’emozione prese a scorrermi sotto pelle: potevo tornare a costruire piccoli mondi acquatici.

Problemino: la vasca era rimasta vuota per un numero imprecisato di anni, in uno scantinato con temperature invernali prossime allo zero. Le siliconature avrebbero tenuto ancora?
C’era un solo modo di scoprirlo: il mio amico la riempì d’acqua e la lasciò nel buio della cantina per una settimana. Quando mi telefonò, dicendo che non aveva perso neanche una goccia, feci capriole di gioia! (interiori, ovviamente)

Devo dire che la gioia a volte costa fatica: la ripulitura del lercio vascone, pur con l’aiuto della mia compagna, non fu cosa da poco; e diversamente gradevole fu anche il trasporto, senza ascensore, fino al terzo piano dove abito. Ma, con l’aiuto dei miei nerboruti figlioli e di qualche improperio, l’impresa fu compiuta.

Espiazione

Ancora non avevamo finito di trovargli una sistemazione, che già la domanda delle domande invadeva la mia mente: quali pesci prendere?
Rispetto agli anni dai quali arrivavo, come acquariofilo intendo, il mondo era cambiato. Attraverso Internet era possibile accedere ad un immenso archivio di informazioni fruibili da chiunque, compresi gli appassionati di pesci.

Viste le mie tendenze integraliste, fui subito attratto da un sito di solida morale: «Acquariofilia consapevole», che riuscì a rinfocolare il mio senso di colpa per gli atteggiamenti spesso superficiali avuti in passato con gli amici pinnati.
Così decisi, come per espiare, che avrei allevato il più bistrattato dei nostri ospiti: il Carassius auratus, meglio conosciuto come pesce rosso.

Pesce rosso (Carassius Auratus)
Pesce rosso (Carassius Auratus)

Allestii la vasca, ma ero preoccupato che, vecchia com’era, non reggesse a lungo la pressione dell’acqua; per ridurre i rischi decisi allora di riempirla fino a 32 centimetri di altezza, in luogo dei 40 potenziali.

Ma, come ben si sa, la stupidità umana (o almeno di alcuni umani) è pressoché infinita: dopo tanta prudenza posta per la colonna d’acqua, collocai la vasca su una moderna scrivania con sottili gambette non certo adatte a sopportare un peso così elevato.
Fortunatamente, pur rimanendo su quell’incerto appoggio per due anni abbondanti, nulla accadde di irreparabile.

Poi, non pago della scempiaggine già dimostrata, volendo recuperare il tempo perduto decisi di popolare la vasca dopo una sola settimana di maturazione. Miei cari lettori, siete diffidati dall’esprimere giudizi sulla mia condotta.

Causa la rarefazione dei negozi d’acquari, per l’acquisto dei pescetti rossi mi recai in un grande centro commerciale naturalistico, Viridea. Volevo prendere dei normalissimi Carassi, ma era disponibile solo la varietà Cometa ed io, pur di non tornare a casa a mani vuote, ne acquistai quattro esemplari con la coda più piccola che riuscii a trovare, assai simili a dei rossi comuni.

Acquario con pesci rossi
Acquario con pesci rossi (foto di HCanon)

Trascorsero così due anni in cui mi limitai a trattare i miei rossi il meglio possibile, ma pur sapendo che il mondo dell’acquariofilia era cambiato, eccome se era cambiato, continuavo a rimanerne ai margini.

Jiminy

Solo un episodio ruppe la monotonia di quel periodo. Una mia collega, appassionata di viaggi esotici, involontariamente divenne il tramite di una esperienza abbastanza insolita.

In ufficio mi ero portato una piccola vasca a cubo che qualcuno mi aveva rifilato, e dentro ci tenevo delle piantine grasse.
Un bel giorno, la collega dei lunghi viaggi si presentò da me con uno scatolino. Al mio sguardo perplesso rispose con il racconto di un banale, in apparenza, episodio casalingo: «L’altro giorno stavo svuotando le valigie, quando ho notato uno strano movimento fra i panni e guardando bene ho visto un insettone, che penso essere un Grillo, ma un Grillo enorme».

Guardai torvo la mia amica, incominciavo a sospettare dove volesse andare a parare, ma lei ruppe subito il filo dei miei pensieri e continuò: «Sai, ero un po’ schifata ma non volevo ucciderlo, e allora ho pensato a te».
Mi lanciò un sorrisetto malizioso, lasciandomi con lo scatolino tra le mani.

Mi ero accollato un bel problema, stavano per iniziare le ferie natalizie e non potevo certo lasciare il mio nuovo protetto, per di più ancora misterioso, per giorni abbandonato a sé stesso.
Telefonai ad uno dei miei figlioli perché venisse a prendermi in auto per aiutarmi a trasportare il cubo con il suo ospite a casa.

Scoprii che si trattava di uno Spalacomimus liberiana, per l’appunto un grosso grillo africano. Fortunatamente la mia compagna, oltre a conoscere bene l’inglese, ha una certa dimestichezza con le lingue in genere, poiché del nostro Grillo in italiano c’era ben poco materiale. Quasi tutto in tedesco, quando andava bene siti spagnoli che traducevano quelli tedeschi. Alla fine riuscimmo a raccogliere le informazioni per ricreargli un habitat confacente e alimentarlo.
Dopo qualche settimana, preoccupati che non avesse spazio a sufficienza, gli comprammo anche una nuova casetta.

È vero, la mia dolce signora mi ha aiutato, ma alla fin fine la differenza fra uomo e donna viene sempre a galla, in particolar modo quando si deve dare dimostrazione di coraggio.
Ammirate così la foto del nostro amico, per vedere chi è che avuto il “cuore” di prendere in mano la bestia?!?
Sì, quella non è proprio la mia mano, io avevo paura!

Spalacomimus liberiana sulla mano
Spalacomimus liberiana (foto di HCanon)

Jiminy, così l’abbiamo chiamato, proprio come il grillo del Pinocchio della Walt Disney, è rimasto con noi per circa sei mesi, poi purtroppo è morto. Non saprei se era giunto alla fine dei suoi giorni, o addirittura sia vissuto di più di quanto naturalmente gli sarebbe stato concesso, ma so, anche se può sembrare strano, che la mia compagna lo salutò con una lagrima.

Oggi

Ormai prossimi alla fine del 2018, i miei stupendi rossi avevano superato i quindici centimetri.
Mi resi conto che avevano bisogno di più spazio, così cominciai ad informarmi sui costi di una nuova vasca. La volevo più grande possibile, e a determinarne le dimensioni finali fu lo spazio disponibile su l’unica parete libera del mio molto piccolo appartamento: un metro e sessanta centimetri.

Pesci rossi
I miei pescioni rossi (foto di HCanon)

Rimasi per un bel po’ indeciso fra la soluzione industriale, tipo lo Juwel 450, e l’assemblaggio artigianale. Così, per risolvermi il dubbio, tornai a metter piede in un vero negozio di acquari, suppongo il più grande di Torino: «Acquarissima 2000».

Appena entrati, sulla sinistra troneggia una vasca di almeno quattro metri con coralli e pesci marini tropicali, un vero spettacolo! Non avevo mai visto niente di simile in un negozio.
Il titolare, come se non bastasse, aveva conosciuto il vecchio Andriolo. Non potevo che affidarmi alle sue mani e farmi costruire un acquario artigianale.

Allestii il vascone, che inizialmente presentò qualche problema per un’invasione di Diatomee (alghe tipiche degli acquari non ancora maturi) e valori abbastanza critici, tipo un GH troppo elevato e un pH alle stelle (8,5).
Superati, o quasi, i primi problemi introdussi i miei pescioni nella nuova casa, accompagnandoli dopo poco ad altri due rossi varietà Cometa.

Non amo antropomorfizzare gli animali, quindi non do dei nomi ai pesci se non per gioco, ma la femminuccia dei nuovi arrivati l’ho trovata così graziosa che non ho potuto fare a meno di chiamarla Labbra rosse.

Labbra rosse, Carassius Auratus varietà Cometa
Labbra rosse (foto di HCanon)

Ottovolante

Le mie vicende con i Carassi di certo non finiscono qui, e chissà che non diano forma ad un altro racconto, ma ormai siamo giunti nel 2019, l’ultima tappa di questa storia.

Grazie alla mia compagna, io sono sempre un po’ rigido, mi avvicinai a una comunità virtuale di appassionati, il forum Acquariofilia Facile. Questa frequentazione mi fece prendere coscienza di un aspetto che sino a quel momento aveva contraddistinto la mia storia di acquariofilo: era stata vissuta come una sorta di clausura.

Penserete: che razza di orso! Certo lo sono, ma non così tanto. Nell’altra mia passione, il ciclismo, non ho mai avuto problemi ad avere compagni di scorribande su due ruote.

Con gli acquari è sempre stato diverso. Sì, è vero, per un po’ ebbi un socio, convinsi un’amica e mia sorella a tenere un acquario, ma, escluso il mio amico negoziante, mai avevo trovato un altro appassionato con il quale condividere dubbi ed esperienze.

L’adesione al forum si può intendere come un punto di svolta nel mio percorso; ben rappresenta il cambio d’epoca che un vecchio acquariofilo come me si è trovato ad affrontare.
Ho finalmente scoperto uno spazio virtuale pieno zeppo di gente che parla di pesci, piante, lampade, filtri e duecento altre diavolerie. Un vero e proprio ottovolante che impazza fra parole e persone e, chissà, amici.

Una comunità di appassionati di acquariofilia
Una comunità di appassionati di acquariofilia

Anche la terminologia all’inizio mi ha un po’ spiazzato; oggi si usano dei termini che negli anni Settanta, Ottanta e forse anche Novanta nessuno conosceva. Il primo che ho incontrato è stato «piantumare» e devo dire che mi è subito piaciuto. Poi leggendo «banco» mi son detto: «ignorantotti sti ragazzi, sbagliano a scrivere branco». E che dire di «allelopatia»? È una forma allergica di noi poveri acquariofili? Ma il termine che più mi ha divertito è «overstoccare», mi sono visto ad armeggiare con una CPU da «overcloccare».

Bene, qui si conclude la narrazione dei miei primi cinquant’anni di acquariofilia; l’avevo pensata più ricca di particolari tecnici e invece si è trasformata in una sorta di cavalcata emozionale, in sella a questa nostra magnifica e contraddittoria passione.

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